giovedì 12 giugno 2008

L’Italia un brand da difendere all’estero

di Riccardo Viale

Il Sole 24 ore, 12 giugno 2008
Perché in questi giorni vi è una grande prcoccupazione nel mondo industriale per i fatti di Napoli? Perché, oltre alle ragioni che sono comuni a tutti i cittadini responsabili del nostro Paese, vi è quela addizionale del grave danno che sta creando all'immagine dell'Italia all'estero e all'export dei nostri prodotti? Come si evidenzia dalla fotografia dei rifiuti a Napoli, pubblicata in prima pagina sul New York Times. Ed è dei giorni scorsi la notizia che il famoso serial «Sex and the City» non utilizzerà più le griffe italiane. Sarà un caso. Certo, però, che di casi così se ne cominciano a osservare.
Recentemente «Futurebrand» ha pubblicato il nuovo indice sui brand Paese (Country Brand Index). L'Italia dalla prima posizione del 2005 è passata alla terza nel 2006 fino alla quinta enl 2007. I fatti di Napoli ppossono diventare il catalizzatore di un ulteriore indebolimento dell'immagine Italia, inizíato con vari fenomeni come il declino economico, l'invecchiamento della popolazione, il pessimismo diffuso, il collasso dei servizi pubblici - Alitalia e Fs in testa - lo scandalo dei vini adulterati, il degrado di parte dei nostri beni culturali e ambientali.
Perché è così rilevante l'immagine del nostro Paese per la fortuna dei nostri prodotti e perché questi fenomeni sono così devastanti per essa? Perché fino a poco tempo fa il potenziale compratore medio estero associava all'Italia una serie di caratteristiche positive come la qualità della vita, il gusto per il bello, la gioia di vivere, la creatività, la freschezza e la spensieratezza. Questo modello mentale dell'italianità derivava da vari fattori, dalla nostra storia artistica e dalle caratteristiche umane, culturali e ambientali del nostro Paese fino alla tipologia dei prodotti esportati, soprattutto di quelli di alta gamma.
Ogni volta che il nostro compratore estero si avvicinava a una merce italiana, automaticamente scattava in lui il collegamento psicologico con il modello dell'italianità. E se la tipologia della merce era coerente con questo modello, come nel caso dell'abbigliamento, dell'arredamento e dell'alimentare, la sua propensione all'acquisto era più forte.
Come ogni rappresentazione mentale, però, anche quella dell'italianità non è irreversibile, ma si nutre di conferme continue. Se queste diminuiscono e se in più divengono salienti nella mente del compratore episodi dal forte impatto emozionale, che esaltano qualità opposte, come quelle della crisi dei rifiuti, allora il modello mentale si deteriora. E l'acquirente diventa meno attratto dal made in Italy. Oggigiorno questo è il rischio per le nostre imprese. Come fare a neutralizzarlo? Nel breve termine sembra irrealistico pensare di risolvere le molte crisi in atto. Bisogna allora tentare di neutralizzare i messaggi devastanti dei media stranieri su ciò che avviene nel nostro Paese con un'azione decisa di marketing del brand Italia all'estero. Finora gli strumenti utilizzati hanno fallito questo obiettivo.
Gli Istituti Italiani di Cultura, pur se da anni sottoposti alla critica e insoddisfazione di tutti, non sono mai riusciti a emulare iniziative di altri Paesi come il British Council, il Goethe e il Cervantes. Non riescono né a svolgere il compito tradizionale di pubblicizzare il meglio della nostra cultura umanistica, né ad assumere ruoli più moderni come la promozione della cultura italiana in senso allargato, dal design industriale alla moda all'architettura allo stile di vita fino alla cultura materiale e immateriale delle varie identità territoriali.
Manca all'estero un vero ambasciatore dell'espressione estetica del nostro Paese che sappia contrastare i messaggi di bruttezza e desolazione che arrivano dall'Italia e vengono veicolati dai media locali.
Manca all'estero un regista della diffusione del binomio cultura e prodotto italiano, anche per la scarsa attività della maggior parte degli Istituti del Commercio estero. Dall'epoca del ministro Gianni De Michelis, vent'anni fa, fino agli impegni del ministro Franco Frattini, (evidenziati nella lettera in risposta a un articolo di Salvatore Carrubba pubblicata sul Sole-24 Ore del 22 maggio) si parla, periodicamente, di riforma radicale degli Istituti. Alcuni studi hanno mostrato anche la strada da seguire: riduzione delle sedi e concentrazione delle risorse in quelle più strategiche per l'immagine dell'Italia; presenza di manager della cultura, di esperti di marketing territoriale e di fond raising, controllo di gestione e valutazione dei risultati; integrazione con le organizzazioni imprenditoriali, camerali e turistiche.
Forse i cambiamenti richiesti potrebbero essere, però, troppo profondi per essere sopportati dall'attuale configurazione organizzativa. Troppo forte potrebbe essere l'inerzia e la path dependance istituzionale per consentire una seria riforma. In questo caso sarebbe auspicabile l'esternalizzazione delle loro funzioni in un'agenzia esterna creata dalla collaborazione pubblico privato
e la contemporanea realizzazione nelle principali città del mondo di iniziative simili alla Casa Italia che aprirà prossimamente, a Shanghai, promossa dalla Triennale di Milano con alcune importanti aziende italiane, che amplia la fortunata esperienza "Spazio Design" di Tokyo.

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